Un’Unione Europea che viaggia a più velocità e con differenti visioni in termini di difesa e sicurezza non funziona, come dimostrato dagli eccessivi costi, dalla duplicazione di competenze, ma anche da un’inefficienza che è sintomatica di un approccio legato a una concezione vecchia di un secolo: immigrazione e terrorismo sono le cartine al tornasole che ne dimostrano limiti e difficoltà, mentre la Nato può essere funzionale al progetto europeo.
di Claudio Bertolotti (articolo originale pubblicato su “Strade – Il Magazine”)
Al momento l’unico strumento di difesa efficace per l’Europa è la Nato, l’Alleanza atlantica all’interno della quale a imporre direzioni strategiche non sempre in linea con gli interessi dell’Unione Europea è il preponderante peso politico degli Stati Uniti. Stati Uniti i quali, in virtù del loro ruolo di leadership, lamentano il limitato impegno dei Paesi europei in termini di sforzi economici che, sulla base degli accordi tra gli alleati in occasione del Summit del Galles nel 2014, avrebbero dovuto portare i rispettivi governi a destinare al comparto difesa almeno il 2% del PIL nazionale; un impegno molto ambizioso per molti degli stati europei le cui economie sono ancora in forte difficoltà.
Tale impegno, tuttavia, se da un lato pone in evidenza differenti sensibilità, dall’altro rappresenta un’opportunità per avviare un processo di integrazione che possa agevolare, attraverso lo sforzo interno alla Nato, la realizzazione di una realtà europea della difesa. Ma non parliamo di esercito europeo, non facciamolo più se vogliamo davvero essere concreti e garantire la sicurezza dei cittadini europei, aumentare l’efficacia di uno strumento militare ed evitare inutili quanto costose duplicazioni.
Un esercito europeo è impossibile da creare a causa delle resistenze dei 27 Stati Maggiori militari e degli omologhi ministeri degli Esteri. Troppe gelosie, troppe ambizioni personali, feudi di potere inscalfibili, scarsa visione strategica d’insieme. Se non a un esercito europeo unico, dunque, è alla difesa comune che è necessario puntare, con folle abbandono e razionale revisione, culturale prima che operativa, attraverso un processo che sia graduale: più “unione” nella difesa europea.
Il primo obiettivo è la creazione di una struttura di vertice della Difesa dell’Unione: un Quartier Generale militare europeo al momento ancora in fase di definizione, l’MPCC (Military Planning Conduct and Capability facility) che avrà il compito di gestire gli attuali impegni militari europei (Somalia, Mali e Repubblica Centro-africana) e quelli futuri, sia di tipo executive (operazioni militari) che non-executive (missioni militari).
Ma al di là di questo primo, seppur significativo, passo si è ancora molto lontani dal vedere realizzata una reale autonomia strategica per quanto concerne una difesa europea, e ciò nonostante la decisione presa lo scorso 18 maggio dai ministri della Difesa europei di dar vita al Cooperative Financial Mechanism (CFM) destinando a tale progetto un budget di tutto rispetto – fissato a 5 miliardi di euro l’anno – al fine di facilitare la progressiva integrazione attraverso una razionale acquisizione degli equipaggiamenti e delle attività sul piano industriale.
Un’Europa della Difesa a due velocità?
L’assenza di una policy comune ai diversi stati dell’Unione in merito alle spese per il comparto Difesa e l’acquisizione di equipaggiamenti ed armamenti, la classificazione riservata da parte di alcuni di questi Paesi, la stessa catalogazione e l’utilizzo di voci differenti rendono molto difficile riuscire a condurre un’analisi comparativa degli impegni nazionali ai fini di una difesa comune.
Nell’Europa centrale e orientale, i cui dati sono di difficile accesso, assistiamo a un progressivo sforzo nell’avvio di un processo di ammodernamento dei comparti militari; ma se la Slovacchia conferma l’impegno, preso in occasione del summit del Galles nel 2014, di portare il proprio budget per la difesa dal 1,11% del PIL all’1,6% entro il 2020, la Repubblica Ceca destina il minimo indispensabile all’avvio dello sviluppo delle capacità militari, come stabilito dal Long Term Perspective for Defence 2030. Estonia, Ungheria e Polonia hanno garantito un aumento della propria spesa.
Più trasparenti i dati dei Paesi del Nord Europa, dove, a fronte di una riduzione di acquisizioni materiali (e dunque di spesa) da parte della Danimarca, la Norvegia ha aumentato i propri sforzi ed investimenti, mentre la Svezia, pur avendo votato per una contrazione degli investimenti nel 2016, ha garantito maggiore spesa per il 2019.
L’Europa sud-orientale indica una situazione sostanzialmente statica: la Bulgaria mantiene invariato il proprio sforzo, almeno sino a tutto il 2018; la Croazia lo ha addirittura ridotto; la Grecia propone aumenti progressivi sino al 2020, ma al contempo applica tagli lineari al proprio budget di difesa.
Spaccata la situazione nell’Europa occidentale che mostra Paesi come Austria, Francia, Germania, Malta e Olanda impegnati in un aumento del budget per la Difesa, e altri Paesi, come Italia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Belgio, che invece non prevedono aumenti sostanziali o addirittura procederanno a tagli significativi nel breve periodo (2017-2020).
Nel complesso, la lettura dei dati disponibili riferiti al 2015-16 ci consente di valutare un apprezzabile maggior impegno da parte di alcuni governi per quanto riguarda l’acquisizione di equipaggiamenti; tale dinamica è, sul piano quantitativo, un fattore chiave nell’analisi delle policy nazionali in un’ottica di sforzo comune. Nel 2016 si è speso complessivamente di più in Europa, mentre i Paesi dell’ex Patto di Varsavia hanno avviato processi strategici finalizzati a renderli sempre meno dipendenti dalla Russia per quanto riguarda l’acquisizione di equipaggiamenti militari; questo potrà avere nel medio periodo effetti positivi sulle capacità degli strumenti militari. Estonia, Grecia (!) e Polonia sono gli unici Paesi europei a destinare il 2% del proprio PIL alla Difesa, così come richiesto dalla Nato e dal presidente Usa Donald J. Trump.
Aumentano, al tempo stesso, gli accordi di cooperazione tra i Paesi dell’Unione e tra quelli della Nato, sebbene la maggior parte di questi sia di natura bilaterale con i Paesi confinanti; in aumento sono anche i rapporti “mini-laterali”, di breve respiro ma in grado di gettare le basi di collaborazioni costruttive tra le parti. Ciò che emerge è però un’Unione Europea che viaggia a più velocità e con differenti approcci e visioni comunitarie, ma con un impatto non salutare per una reale difesa comune.
Spendere meno, spendere meglio
Sul piano quantitativo, l’UE è seconda solo agli Stati Uniti per spesa militare – rispettivamente 193 miliardi (escluso il Regno Unito) e 611 miliardi di dollari. Ma l’Europa non è la seconda potenza militare al mondo: tutt’altro, poiché è costituita da 27 eserciti nazionali blandamente uniti tra di loro attraverso accordi bilaterali e multilaterali.
Un costo immenso e non giustificabile per una non-Europa della difesa che non si limita all’ambito economico, ma è prevalente su quelli politico e strategico, con dirette ripercussioni in termini di efficienza di uno strumento fondamentale per le relazioni internazionali e il raggiungimento degli obiettivi di politica estera.
Questa inefficienza complessiva affonda le sue radici nella sostanziale inefficienza del mercato della difesa e si impone a causa di tre ragioni di fondo. La prima è che, pur a fronte degli sforzi compiuti dalla Commissione europea e dall’Agenzia europea per la difesa (EDA), gli stati membri optano per i loro mercati nazionali, causando sovrapposizioni e duplicazioni. La seconda ragione deriva dagli ostacoli al trasferimento di beni e materiali per la difesa tra gli Stati membri. La terza è data dalle partecipazioni industriali internazionali (industrial offsetting), ossia leggi specifiche o direttive e procedure formali interne agli Stati che privilegiano i rapporti con le industrie nazionali; una scelta a garanzia della sopravvivenza di alcune di queste che, in condizione di mercato aperto alla concorrenza, potrebbero fallire – basti pensare che circa l’80% delle forniture militari per la difesa dell’Unione è procurato entro i confini nazionali. Il risultato, nel complesso, è quello di un mercato della difesa fortemente frammentato e costoso a causa delle molteplici duplicazioni.
Ma il protezionismo nel settore della difesa europea è un elemento di preoccupazione, purtroppo sottovalutato: un mercato europeo degli equipaggiamenti avrebbe effetti positivi sui prezzi di acquisto, in termini di minori costi per gli Stati, ed è evidente come non sia oggi sostenibile, in un momento di bilanci statici per la difesa, continuare ad acquisire tali equipaggiamenti a prezzi più elevati di quelli che un mercato libero potrebbe garantire in condizione di concorrenza tra i produttori. Solo l’applicazione dei principi del libero mercato può garantire una riduzione di quelle citate duplicazioni, maggiori economie di scala, maggiore concorrenza industriale e prezzi più bassi.
In estrema sintesi, la difesa su scala nazionale porta a duplicazioni, inefficienze e limitate capacità operative complessive. L’Europa della difesa otterrebbe il contrario di tutto ciò: semplificazioni, efficienza e adeguate capacità d’intervento a tutela delle ambizioni di politica estera dell’Unione. I numeri riassumono questo concetto meglio di qualunque altra spiegazione: il risparmio a cui andrebbe incontro l’Europa, come testimoniato da uno studio dello IAI (Istituto di Affari Internazionali), varierebbe da 26 a oltre 120 miliardi della spesa e da esso deriverebbe una maggiore efficienza operativa, servizi comuni, collaborazione negli armamenti, specializzazione dei ruoli, riduzione delle sovrapposizioni.
La Nato è conciliabile con uno strumento di difesa europeo?
La Nato è al momento l’unico strumento di difesa per i Paesi europei, poiché nessuno degli Stati dell’Unione è in grado di difendersi da attacchi convenzionali o di condurre azioni militari di ampio respiro in maniera autonoma e per un periodo di tempo prolungato. La Nato, inoltre, ha una capacità di pianificazione, coordinamento e intervento che la UE oggi non ha. In quest’ottica il ruolo della Nato, più necessario che auspicato, è di primo piano. Oggi è così. Domani?
Pur nella consapevolezza che la Nato sia un efficace strumento di difesa degli interessi dell’Occidente, e nella convinzione che l’Alleanza atlantica sia l’unica soluzione davvero efficace in tale ottica, è però vero che sono almeno due i fattori degni di attenzione. Il primo è l’eterogeneità delle capacità organizzative e dei “tempi” militari dei singoli Paesi dell’Alleanza, e questo nonostante gli standard condivisi; il secondo è l’opportunità di un ruolo diretto della UE all’interno della Nato, in sostituzione dei singoli sforzi: ciò consentirebbe di bilanciare interessi e ambizioni nazionali in favore di quelli comunitari e, al contempo, di contrapporre alla guida forte degli Stati Uniti un’altrettanto forte UE, la cui forza sarebbe la somma delle singole capacità nazionali.
In quest’ottica l’Europa trarrebbe un doppio vantaggio strategico: da una parte svilupperebbe un rapporto sostanzialmente paritetico con gli Stati Uniti, dall’altra la capacità di operare a tutela degli interessi europei attraverso un proprio strumento di difesa utile tanto all’Alleanza Atlantica quanto a sé stessa. In tale quadro una conferma positiva deriverebbe dall’approccio del presidente Usa Trump verso un ri-orientamento della Nato verso Sud e un alleggerimento a Est, con tutto vantaggio per l’Europa e per l’Italia in particolare.
Spendere di più per la Nato oggi non è dunque sbagliato, anzi è necessario in un’ottica di efficacia dello strumento di Difesa europea di domani.
Terrorismo e immigrazione: la risposta è in una strategia condivisa
I vantaggi di una difesa comune si riassumono in maggiore sicurezza per i cittadini dell’Unione, stabilità interna e capacità di risposta adeguata al fenomeno strutturale dell’immigrazione di massa e alla minaccia del terrorismo.
L’Italia ha tutto da guadagnare in uno sforzo comune, in quanto alleggerirebbe lo sforzo che da sola, oltre al contributo dell’Agenzia europea Frontex, è chiamata a dare per la sicurezza del fronte sud dell’Europa. In particolare, desta forte preoccupazione l’immigrazione di massa che vedrà nei prossimi anni un potenziale di decine di milioni di migranti economici muoversi dal continente africano verso le coste dell’Italia, e che impone oggi all’Italia la presenza sul proprio territorio di circa 500mila clandestini, la maggior parte formalmente espulsi ma nella sostanza fuori controllo.
Su questo l’Italia è isolata, deve farsene una ragione: l’Ue i clandestini non li vuole. In altri termini, gli accordi di Schengen, che riguardano l’apertura delle sole frontiere interne, ci impongono di chiudere ai migranti economici le frontiere marittime esterne.
L’Europa è chiusa e un sistema di difesa comune è l’unico strumento a garanzia della sua esistenza e a tutela dei suoi confini e, al tempo stesso, a tutela degli stessi migranti che, in relazione al crescente impegno da parte dell’Europa, dell’Italia e di altri attori non istituzionali come le organizzazioni non governative (Ong) nell’opera di ricerca e recupero in mare, vedono progressivamente aumentare il numero di morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo.
In parallelo al fenomeno migratorio, si impone la necessità di una strategia comune per il contrasto al terrorismo. L’agenzia europea Frontex – a bilanciamento dell’apertura delle frontiere interne – controlla gli ingressi alle frontiere esterne Schengen attraverso una serie di strumenti integrati, primo tra i quali la cooperazione e lo scambio di informazioni tra gli Stati membri attraverso database internazionali e condivisione di expertise nei punti critici dove avviene la violazione degli accessi da parte di organizzazioni criminali, trafficanti e terroristi.
Basti pensare ai due casi di terroristi in qualche modo legati all’Italia che hanno colpito in Europa. Il primo, il migrante tunisino Anis Amri, il terrorista di Berlino del dicembre 2016, segnalato dall’Italia alle autorità tedesche ma capace di colpire indisturbato prima di tornare in Italia ed essere ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni. Il secondo, l’italo-marocchino Youssef Zaghba, aspirante foreign fighter dell’ISIS che, fermato in procinto di lasciare l’Italia (l’Europa) per la Siria e poi rilasciato dall’autorità giudiziaria italiana per insufficienza di prove, è poi stato ucciso a Londra durante l’attacco jihadista nel giugno 2017.
Entrambi i soggetti erano stati inseriti nello “Schengen Information System”, il database internazionale voluto dalla Commissione europea per la sicurezza dell’Unione, ma qualcosa non ha funzionato, mettendo in evidenza come, a fronte di un approccio teorico corretto, sopravvivano una cronica diffidenza, troppa lentezza e limitazioni culturali nella comprensione dei vantaggi derivanti dalla condivisione delle informazioni.
Tutte conferme, ancora una volta, di un necessario sforzo comune, a partire dalla condivisione degli strumenti di difesa e sicurezza. L’Europa è ad oggi una potenza non espressa, ciò a causa di un’inconsistenza politica che ne impedisce la definizione di una strategia comune e condivisa. E l’assenza di tale comune strategia è una debolezza non più sostenibile e che apre a vulnerabilità rese sempre più attuali dalle molteplici minacce contemporanee, tanto sul piano politico-economico, quanto su quello strategico, delle relazioni internazionali e della stessa sicurezza comunitaria.
di Claudio Bertolotti (articolo originale pubblicato su “Strade – Il Magazine”)