Solo il 35 percento della popolazione afghana vivrebbe in aree controllate dal governo; meno di 12milioni, sul totale stimato di 34milioni di abitanti.
Le forze afghane starebbero lasciando le aree rurali ai talebani per concentrarsi in quelle urbane.
La grand strategy degli Stati Uniti per l’Asia meridionale include la stabilizzazione dell’Afghanistan, in cui la componente militare mantiene un ruolo primario: in tale quadro strategico, in parallelo alla diplomazia, le forze statunitensi e afghane sono impegnate, attraverso bombardamenti aerei mirati e raid delle forze speciali, nel mantenere elevata la pressione sui talebani al fine di indurli a negoziare e ad aderire al processo di riconciliazione.
Secondo il Pentagono, il governo afghano è in grado di controllare non più del 60 percento del Paese, mentre il restante territorio sarebbe conteso o sotto il controllo dei gruppi di opposizione armata: 41 i distretti provinciali nelle mani degli insorti, sui 407 totali, 118 quelli contesi al governo di Kabul. Molti analisti indipendenti ritengono invece che le percentuali vadano invertite e che l’effettivo controllo governativo non si estenda oltre il 40 percento del territorio. Un dato preoccupante che si accompagna con quello riferito alla popolazione residente in aree sicure: solo il 35 percento della popolazione afghana vivrebbe in aree controllate dal governo; meno di 12milioni, sul totale stimato di 34milioni di abitanti.
Uno scenario desolante in cui, mentre l’aviazione e le forze speciali statunitensi sono impegnate in azioni intense e mirate – a cui si contrappone un’attività operativa marginale delle forze della missione Nato Resolute Support–, l’esercito e la polizia afghani starebbero procedendo a un ritiro sistematico dalle aree periferiche per concentrarsi nei centri urbani. Una scelta dettata, da un lato, dall’opzione politica che potrebbe concedere ai talebani libertà d’azione nelle aree de factogià sotto il loro controllo o contestate alle forze governative e, dall’altro, dall’incapacità di resistere all’offensiva dei gruppi armati a causa del limitato livello operativo e da una coesione sempre più debole.
In tale quadro, il governo di Kabul deve anche fare i conti con il ruolo sempre più aggressivo dello Stato Islamico-Khorasan, il franchise afghano del gruppo che fa idealmente capo all’auto-proclamato “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, tra le cui fila cresce il numero di veterani stranieri provenienti dalla Siria e dall’Iraq, forti dell’esperienza in guerra e portatori dell’ideologia jihadista globale.
Sviluppi complessi, quelli descritti, che hanno conseguenze dirette sullo svolgimento delle elezioni politiche per il rinnovo del parlamento nazionale del 20 ottobre e per le elezioni presidenziali in calendario il 20 aprile 2019. Elezioni il cui svolgimento sarà limitato alle aree sotto il controllo governativo che, abbiamo visto, si riducono sempre più; inoltre la regolarità delle stesse è messa a dura prova poiché manca la necessaria cornice di sicurezza a garanzia della Commissione elettorale indipendente, impossibilitata ad operare nelle aree più periferiche del Paese, dove centinaia di seggi elettorali non potranno essere aperti.
Una situazione già vista in occasione di un altro importante appuntamento elettorale, le presidenziali del 2014, che fu caratterizzato da gravi irregolarità e che si concluse con la spartizione del potere tra i due contendenti, senza un vero vincitore: Ashraf Ghani, insediatosi come presidente, e Abdullah Abdullah, nominato primo ministro esecutivo, una figura non prevista dall’ordinamento costituzionale afghano.
La situazione generale non lascia spazio all’ottimismo. A garantirne lo svolgimento, se non regolare almeno pro-forma e limitato a una parte del Paese, non saranno i 20.000 soldati statunitensi e della Nato a cui si affiancano altrettanti contractor (il cui ruolo potrebbe progressivamente aumentare) impiegati in attività di supporto e di sicurezza; saranno invece chiamati l’esercito e la polizia afghani, le cui capacità sono però fortemente limitate, nonostante i grandi sforzi per la loro costituzione e formazione da parte di Washington e della Nato.
Successi e fallimenti dell’assistenza al settore della sicurezza sono periodicamente resi pubblici dallo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction(SIGAR), attraverso i report presentati al Congresso degli Stati Uniti e ai Segretari di Stato e della Difesa. Ma per la prima volta in otto anni, nel 2017 il Dipartimento della Difesa statunitense ha limitato la diffusione di informazioni riguardanti le capacità operative delle forze di sicurezza afghane, optando per la riservatezza di statistiche e dati relativi a forza effettiva, diserzioni e perdite in operazioni, dotazione di equipaggiamenti e livelli di capacità operativa raggiunti. Una forma di censura che, da allora, consente l’accesso solo alle informazioni aggiornate a giugno 2017.
Sul piano del sostegno finanziario, oltre il 60 percento dei 121 miliardi di dollari destinati dagli Stati Uniti per la ricostruzione dello Stato afghano è stato speso per costruire, addestrare, assistere ed equipaggiare le forze di sicurezza; 43 miliardi per l’esercito e 21 per la polizia nazionale, a cui vanno a sommarsi quelli destinati alle forze di polizia ausiliarie. Ma nonostante gli sforzi, sul piano operativo le forze afghane sono deficitarie a livello di organici, equipaggiamento e addestramento: elementi necessari a porre in sicurezza il paese.
In particolare, l’esercito è in difficoltà nello svolgere le funzioni di forza militare poiché, sul totale di 101 unità di fanteria, solo una è classificata come pienamente “pronta al combattimento”, mentre 38 unità sono indicate come affette da “limiti sostanziali”; altri 10 battaglioni, di 600 soldati ciascuno, sono stati classificati come “non operativi e su 17 battaglioni situati nelle province meridionali di Kandahar e Zabul, dove i talebani sono in grado di muoversi e operare senza essere contrastati, 12 unità hanno una capacità operativa “limitata”.
Sul piano quantitativo le forze afghane hanno raggiunto quota 336.042, sul totale teorico previsto di 360.000. Ma è il turnover il problema che più grava sulla funzionalità dello strumento militare. L’esercito ha dovuto provvedere al rimpiazzo di circa un terzo dei 170.000 soldati, a causa di abbandoni, diserzioni, perdite sul campo e bassi tassi di rinnovo della ferma volontaria. Ciò significa che oggi un terzo dell’esercito è costituito da reclute con una limitata esperienza operativa alle spalle, maturata dopo un periodo di addestramento non superiore a dieci settimane.
Le perdite, dal momento in cui le forze afghane hanno preso il controllo operativo del Paese nel gennaio 2015, sono progressivamente aumentate; in particolare tra il personale impegnato in attività di controllo del territorio come pattuglie e servizi presso check-point. Il dato del 2017 è del 35 percento superiore a quello dell’anno precedente. Il 2018 ci consegna un quadro ancora più preoccupante. Il dato complessivo del tasso di allontanamento mensile (congedo, mancato rinnovo della ferma, allontanamento di altro tipo) è di quasi il 3 percento.
Va preso atto, inoltre, che le elevate perdite in combattimento, a cui si somma il disagio dell’impiego prolungato in aree molto distanti da quelle di reclutamento e provenienza, sono concausa delle crescenti diserzioni, con un dato significativo di soldati che si uniscono ai talebani e agli altri gruppi di opposizione armata.
In particolare, va evidenziato che la corruzione, l’analfabetismo, il ruolo marginale assegnato al personale femminile, la fornitura di attrezzature e armi, gli elevati livelli di attrito tra le diverse componenti delle forze di sicurezza afghane, spesso in competizione tra di loro, nonché la rotazione annuale degli istruttori e degli addestratori statunitensi (semestrale per altri partner della Nato) sono tutti fattori che hanno influito sullo sviluppo delle forze afghane.
Sul piano delle dotazioni di veicoli ed equipaggiamenti l’esercito ha registrato miglioramenti nel corso del 2017; ciò ha consentito di prendere parte alla campagna militare del 2017 con una capacità operativa superiore a quella con cui affrontò la campagna del 2016: a livello di corpo d’armata vi è una disponibilità di equipaggiamenti operativi del 62 percento, 78 percento per le Forze Speciali e 93 percento per la divisione a guardia della capitale Kabul.
Gli equipaggiamenti sono dunque a disposizione dei soldati afghani, ma i problemi principali sono sostanzialmente due. Da un lato, la fornitura di sistemi d’arma avanzati ed equipaggiamenti di standard occidentale a truppe prevalentemente non addestrate, con elevato tasso di analfabetismo e prive di un’adeguata formazione e di infrastrutture logistiche e addestrative nazionali, ha creato uno stato di dipendenza a lungo termine dai militari stranieri. Dall’altro lato c’è l’incapacità di gestione: sovra-utilizzo, mancata assegnazione di responsabili logistici chiave e scarsa utilizzazione dei previsti servizi esterni di manutenzione rendono inefficiente ciò che sulla carta dovrebbe invece essere disponibile.
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