di Claudio Bertolotti
articolo originale pubblicato per ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e START InSight
Dopo l’annuncio del ritiro statunitense dalla Siria fatto il 19 dicembre dal presidente Donald J. Trump attraverso twitter, due giorni dopo è toccato all’Afghanistan.
L’amministrazione Trump ha ordinato al Pentagono avviare entro alcune settimane il ritiro di circa 7.000 soldati dal teatro afghano: un cambio significativo nella strategia per l’Afghanistan che, nell’alternarsi di revisioni, cambi di obiettivi e variazioni nei numeri delle truppe schierate dagli Stati Uniti e dalla Nato, sembra ora dirigersi verso un punto di non ritorno per una guerra che sta entrando nel suo diciottesimo anno, la più lunga combattuta dagli Stati Uniti, da sempre.
Il presidente Trump ha così deciso di dimezzare il contingente statunitense, da 14.000 unità a 7.000: quella che si preannuncia come la prima fase di un disimpegno totale che però richiederà più tempo.
Stupore e preoccupazione da parte afghana, il cui governo e le cui forze armate a fatica sopravvivono all’espansione inarrestabile dei talebani – ormai padroni di quasi metà del Paese – e della crescente violenza del franchise afghano dello Stato islamico.
Stupore e preoccupazione anche da parte degli alleati della Nato, non coinvolti, né informati preventivamente da Washington, che ora potrebbero chiedere la riunione del Comitato Atlantico per decidere quale approccio adottare in conseguenza di una revisione della strategia “imposta” che, se non affrontata con gli alleati, potrebbe precipitare il paese in un caos incontrollabile.
Da un lato la scelta statunitense prende atto dell’impossibilità di vincere una guerra, da tempo in fase di stallo e in sostanza persa, né di giungere a un accordo con i talebani pur a fronte dei numerosi tentativi di coinvolgimento in un processo negoziale sempre più generoso nei loro confronti ma inconcludente. E in fondo ai talebani non conviene scendere a patti sapendo di essere i vincitori di questa guerra, per il semplice fatto che gli Stati Uniti, non potendo rimanere all’infinito in Afghanistan, lasceranno prima o poi il campo lasciando il governo afghano, sempre più solo e senza il fondamentale sostegno esterno, a dover gestire il fenomeno insurrezionale. E sebbene l’annuncio di Trump sia un atto che può essere interpretato come resa senza condizioni, va però detto che tale opzione elimina almeno in parte l’unico ostacolo alla partecipazione talebana al negoziato: il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan come precondizione essenziale a una soluzione mediata. A fronte di una disponibilità di Washington ad andare incontro alle richieste talebane, il principale gruppo insurrezionale potrebbe concedere qualche apertura e ridurre il livello di violenza.
Dall’altro lato, e questo è l’elemento più preoccupante, la decisione di Trump impone numeri e tempi realisticamente non sostenibili: né per le forze afghane, incapaci di sopravvivere senza un robusto supporto esterno, né per gli alleati della Nato, che da soli saranno in grado di garantire un livello di sicurezza minimale solamente per sé stessi e per un periodo di tempo assai limitato.
L’annuncio del parziale ritiro dall’Afghanistan è arrivato poche ore dopo la comunicazione delle dimissioni del segretario alla Difesa Jim Mattis, che rimarrà in carica fino alla fine di febbraio, a causa dei disaccordi con il presidente in merito al suo approccio alla politica in Medio Oriente.
“La riduzione delle forze americane in Afghanistan” – ha dichiarato il portavoce del Pentagono – “è volta a rendere le forze afghane indipendenti e non vincolate al sostegno occidentale”. Ma la realtà è esattamente l’opposto: le truppe afghane, per le quali il supporto aereo e di terra statunitense è fondamentale per poter operare, collasseranno perché sono incapaci di operare in maniera autonoma ed efficace, lasciando tutte le strade aperte all’insurrezione armata e al nuovo terrorismo che, dalla Siria e dall’Iraq, ha fatto affluire migliaia di reduci dello Stato islamico e pericolosi jihadisti che oggi combattono anche tra i talebani.
Quali truppe verranno ritirate: truppe convenzionali o forze speciali? Questo farà la differenza poiché, da un lato c’è lo sforzo di Freedom’s Sentinel, l’operazione di contro-terrorismo focalizzata sull’annientamento di al-Qa’ida e dello Stato islamico; dall’altro lato c’è il contributo delle truppe che operano sotto la bandiera della Nato in attività di addestramento, assistenza e consulenza alle forze di sicurezza afghane.
Cosa faranno gli alleati della Nato? Gli alleati, ai quali Washington ha sempre chiesto di sostenere le proprie strategie, potrebbero ora sentirsi svincolati dall’impegno preso nei confronti degli Stati Uniti. Un “liberi tutti” che rischia di abbandonare il paese al caos che a fatica si sta tentando di contenere (ma non fermare, data l’elevata capacità di conquistare terreno da parte della galassia insurrezionale). Un altro fattore da porre in evidenza è il ruolo delle truppe che saranno destinate a rimanere: con buona probabilità saranno quelle che dovranno garantire il controllo delle basi strategiche di cui gli Stati Uniti hanno il diritto di utilizzo almeno fino al 2024.
Il ministro della Difesa italiano, Elisabetta Trenta, aveva annunciato a metà dicembre il ridimensionamento del contingente nazionale con una riduzione di circa 200 unità; un dato rilevante rispetto al totale ora schierato, che è pari a 900 uomini, ma ininfluente sul piano operativo a causa di un impiego molto cauto e limitato all’essenziale.
Cosa potranno fare le forze afghane? Non molto purtroppo. Il cronico stato di incapacità operativa, le forti perdite in termini di morti, feriti, diserzioni e mancati rinnovi della ferma hanno portato nell’ultimo anno a una sostituzione degli organici operativi di circa un terzo del totale con soldati giovani e senza esperienza operativa. Molte delle aree periferiche del paese sono state abbandonate al loro destino con il concentramento dei reparti in prossimità delle aree urbane, e la stessa capitale Kabul è in una sorta di assedio permanente, sempre più colpita da attacchi insurrezionali e attentati terroristici.
Quale Afghanistan nel post-ritiro? un Afghanistan molto diverso da quello che ci saremmo aspettati nel 2001. Sino ad ora è mancato il coraggio da parte dei presidenti statunitensi e dei paesi membri dell’Alleanza Atlantica di ammettere la sconfitta; Trump non arriverà a tanto per ragioni di consenso interno, ma il messaggio che ha lanciato è molto chiaro: l’impegno in Afghanistan va rimodulato perchè costa troppo in termini di risorse economiche, materiali ed umane.
Ma il rischio è di lasciare l’Afghanistan in una condizione peggiore di quella che gli Stati Uniti trovarono nel 2001, dopo l’intervento militare volto ad abbattere il regime talebano. Peggiore perché, come abbiamo visto, in Afghanistan stanno combattendo tra le fila dei talebani e sotto la bandiera dello Stato islamico gli jihadisti centro-asiatici uzbeki, i cinesi uiguri, terroristi, uomini e donne, tra i quali anche soggetti con passaporto europeo, in fuga dalla Siria e dall’Iraq, dove lo stesso Trump ha dichiarato, molto ingenuamente, di aver sconfitto l’ISIS.
articolo originale pubblicato per ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e START InSight