di Claudio Bertolotti (Direttore di START InSight, ricercatore dell’ISPI)
Articolo originale pubblicato su La Repubblica, a cura di Francesco De Leo.
La Legione è qualcosa di speciale: condivisione, cameratismo, dove ognuno dei “compagnons” di 140 nazionalità diverse porta la propria esperienza, dall’Europa, in particolare dall’Est, alle Americhe, dall’Asia e dall’Africa, condividendo il proprio bagaglio professionale, culturale e umano. In Legione ci si entra per svariati motivi: ragioni economiche, problemi con la giustizia, spirito di avventura, riscatto e ricerca di un nuovo inizio. Sono almeno 9.000 le ragioni, una per ognuno dei legionari che ne compongono i reparti che la Francia utilizza come unità avanzate, da impiegare prima di tutti gli altri e sui campi di battaglia più pericolosi: volontari stranieri, pochi i francesi (spesso fittiziamente arruolati come svizzeri, belgi, monegaschi), e per questo sacrificabili, da schierare sulla prima linea del fronte, in tutte le operazioni militari più rischiose e impopolari. Quando muoiono, perché muoiono, l’opinione pubblica non è turbata, non ci sono conseguenze politiche (ed elettorali) irreversibili. È la regola del gioco. Nella Legione ci si entra sempre volontariamente, con la consapevolezza di “andare alla guerra”, eventualmente morire, in cambio di una nuova vita, la cittadinanza francese, una buona pensione, ma solo per chi è disposto ad accettarne il rischio. Sono i legionari a prendere parte a tutte le operazioni militari in cui la Francia è impegnata; prima di tutti e più vicini al pericolo: Iraq, Ciad, Djibouti, Burkina Faso, Afghanistan, Mali. Un’esperienza che può durare il tempo della ferma minima, cinque anni, o proseguire con una carriera che al massimo consente di diventare sottufficiali. In ogni caso è un’esperienza che questi uomini si portano dietro per tutta la vita, nel bene e nel male.
Ho iniziato ad apprezzare e ad approfondire la storia della Legione straniera francese quando ero poco più che un bambino. Uno zio legionario, zio Claudio, “un personaggio”, come i tanti che compongono la Legione. Di lui conservo tutte le uniformi militari, le medaglie e l’iconico Kepì bianco, quegli stessi oggetti che ha usato sui Champs Elysées a Parigi, in occasione della parata del 14 luglio: oggetti di culto, che ho accudito per anni, rispettandoli come testimonianza di un vissuto personale ma al tempo stesso come simboli di valori molto forti. Ma più di tutto, al di là degli oggetti, conservo i ricordi che mi ha trasmesso e che io, affamato di sapere, curioso e mai stanco di farmi descrivere i dettagli, custodisco con affetto.
Lo zio legionario, un tipo affascinante, carismatico e arrabbiato col mondo, dopo l’intenso addestramento nella Guyana francese, aveva combattuto in una guerra di cui poco si è parlato, quella libico-ciadiana – iniziata nel 1978 e finita ufficialmente nel 1987, ma protrattasi ancora nel 1988 – prendendo parte alla fase finale della guerra, tra il 1984 e il 1988, in quello che è stato il momento più intenso dal punto di vista operativo in conseguenza della grande offensiva libica attraverso la “Linea rossa”. Lui era lì, inquadrato nell’operazione “Épervier” (sparviero), e dei suoi racconti rammento l’accenno ai due legionari caduti a causa di un ordigno esplosivo piazzato dai libici sulla strada che percorrevano tutti i giorni. Era uno che ci sapeva fare, con le persone, aveva un approccio brillante. Ha terminato la ferma occupandosi di benessere del personale, di fatto gestendo il bordello di battaglione. Un aspetto che mi ha portato a confrontarmi con le diverse sfaccettature della realtà legionaria, che non è fatta, come giusto che sia, solo di fatica, paura e morte, ma anche di svago, distrazione, piacere. Perché un combattente che va al fronte – mi diceva – non è un monaco guerriero a cui chiedere solamente di fare il lavoro sporco per un ideale e a costo della vita.
Attraverso i suoi racconti si è così creata nel mio immaginario l’idea di una Legione, certo leggendaria e severa, ma anche umana, con le sue vanità e le sue debolezze. Una Legione, quella che mi immaginavo in quegli anni, non poi molto diversa da quella che ho avuto modo di conoscere di persona qualche anno dopo in Afghanistan, dal 2005 al 2007, dove ho lavorato a stretto contatto proprio con i legionari del contingente francese inquadrato nella missione ISAF guidata dalla NATO, apprezzandone le qualità e sopportandone i difetti di cui avevo sino ad allora solamente sentito parlare.
Ai legionari erano destinate le attività più rischiose e le pattuglie più impegnative: Surobi, il settore più pericoloso della provincia di Kabul, viene assegnato alla Legione dopo l’attacco talebano in cui sono stati uccisi dieci paracadutisti francesi dell’esercito, impegnati a combattere fino all’esaurimento delle munizioni; un’azione che è seguita al precedente scontro in cui ha trovato la morte il maresciallo italiano Giovanni Pezzullo, ucciso a sangue freddo dai talebani che lo avevano trovato isolato rispetto alla sua unità. A Surobi la Legione ha subito molti attacchi da parte dei talebani, ai quali ha reagito in maniera energica e decisa per tutto il periodo di responsabilità francese. Così come ha combattuto in prima linea a fianco dei soldati afghani nel tentativo di contenere la violenza talebana in altri settori del Paese.
Una cosa è certa, e questo posso confermarlo sulla base dell’esperienza diretta: i legionari sono combattenti coraggiosi, spregiudicati e senza paura. E questo fa della Legione quella macchina da guerra, ben rodata e funzionale, dotata di ampia autonomia logistica e operativa. Un corpo d’élite funzionale all’ambizione nazionale della Francia che da, a chi lo desidera, la possibilità di realizzarsi, così come dà ai dannati la possibilità di redimersi, abbandonando il proprio passato e sognando un nuovo futuro, da cittadini francesi.
P.S. Mio zio legionario ha posato lo zaino a terra il 27 agosto 2023. Ora custodisco ancor più orgogliosamente una piccola parte della sua memoria.
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